Di Diana Tramma e Lisa Gombini
Premessa
Negli ultimi anni, all’interno delle visioni più illuminate imprenditoriali e sociologiche, si è fatta sempre più strada la teoria per cui l’ambiente di lavoro, centrale per l’esistenza di ogni individuo che ne fa parte e che costituisce una risorsa nelle strutture organizzative aziendali o d’impresa, sia il contesto su cui focalizzare la sensibilità della comunità. Questo affinché sia anche tutelato, il bene collettivo. Se è vero, infatti, che la produttività aziendale ed il benessere degli individui porta ad una valorizzazione aziendale in termini economici, è anche vero che il riflesso sulla collettività non è solo una idea astratta ma vi sono riscontri tangibili.
Si pensi solo a quanto la società “guadagni” dalla presenza, all’interno del proprio sistema, di aziende virtuose. Si pensi a quanto risparmi da una minor incidenza -sulla finanza pubblica- di contenziosi determinati da disfunzionalità e conflitti nati in azienda (vertenze, procedimenti giudiziari in sede civile e penale).
Recentemente, è stata depositata una proposta di legge relativa al Mobbing e Straining in azienda. Se consideriamo che tale fenomeno è spesso determinato dall’esasperazione di un conflitto mai o mal gestito, ci rendiamo conto di quanto questo fenomeno sia importante prenderlo in carico sia per tutelare il valore dell’azienda sia per tutelare il benessere dell’individuo sia per indirizzare ad una corretta gestione del contenzioso, in ambito sistemico.
Si pensi che, a titolo esemplificativo, già nel 2014, l’art. 1 della proposta di legge Gullo recitava: “La Repubblica promuove incontri tra i diversi soggetti del mercato del lavoro al fine di sensibilizzare i lavoratori, i datori di lavoro e i sindacati al rispetto della normativa in materia dei reati di mobbing e di straining.” (Sulla differenza, vedi Cassazione civile, sez. lavoro, ordinanza 19/02/2018 n° 3977).
La vita aziendale si caratterizza per numerosi episodi di incomprensione, disaccordo e dissidi: non può esistere una situazione organizzativa scevra da conflitti perché molti di loro sono fisiologici, appartengono all’inevitabile dinamica del confronto tra persone e possono essere segno di vitalità organizzativa. Tuttavia, chiunque presti ascolto alle situazioni organizzative si rende conto che talvolta questi stessi episodi sono sintomo di un conflitto cronico ed esasperante, che si traducono in situazioni di grande sofferenza per i soggetti coinvolti. In queste circostanze lo scontro ripetuto non fa che distogliere attenzione, risorse ed energia al lavoratore, gravando tanto sulla sua produttività e abilità al lavoro, quanto le sue risorse fisiche, mentali ed emotive, gravando anche pesantemente sulla qualità della vita (Euwema, Martin et al., 2014). Sebbene il conflitto sia giocato spesso sul piano esplicito interessi, bisogni, punti di vista dei soggetti coinvolti, è altresì vero che esso non può prescindere dalla relazione interpersonale, andando a coinvolgere quasi sempre, sebbene in misura diversa, anche aspetti emotivi e di senso più profondi: “un conflitto è l’equivalente organizzativo dell’emotività individuale. I conflitti sono le emozioni del livello collettivo e quindi, come tali, sono l’origine della vita psichica delle organizzazioni e anche la sorgente dei disturbi delle organizzazioni stesse. Una mancanza di conflitto rende l’organizzazione rigida e statica, mentre l’eccesso di conflitto la rende invasa e senza programmabilità. I conflitti, cioè le emozioni organizzative risentono dei problemi di ogni emozione. Esistono cioè conflitti fantastici, cui non corrispondono reali contrasti obiettivi, e conflitti obiettivi cui non corrisponde una coscienza dell’obiettivo e reale contrasto di interessi” (Spaltro, 2013).
Mediazione aziendale: un’opportunità concreta con riscontri tangibili
Dopo diversi anni lavoro in azienda, dove ho avuto l’occasione di assistere a numerosi conflitti di diversa natura fra colleghi, tra colleghi e superiori ma anche fra dirigenti e proprietà (che magari sono anche membri della stessa famiglia), ho maturato la consapevolezza e toccato con mano quanto sia dispersivo e quanto possa arrecare dolore alle persone lavorare in un contesto aziendale disfunzionale.
“Il lavoro dovrebbe essere una grande gioia ed è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva, non giovi a un nobile scopo”. Diceva Adriano Olivetti.
Dopo essere diventata mediatrice, per me è stato naturale pensare di portare le competenze di questo tipo di professione all’interno dell’ambiente di lavoro. Ciò al fine di PREVENIRE il degenerare di simili situazioni ma anche GESTIRE le problematiche che sono potute conseguire.
Per questo la mediazione aziendale è uno strumento in cui credo molto e che può fare la differenza. La figura di un mediatore professionista, in quanto soggetto terzo, può facilitare infatti il dialogo tra persone che sono ormai ai ferri corti, come i dipendenti o membri di uno stesso team, il capo e i suoi sottoposti, gli stessi manager. Avere maturato consolidata esperienza in azienda è fondamentale, dal mio punto di vista, perché solo chi ha vissuto e lavorato internamente a realtà particolarmente strutturate può capire veramente le dinamiche e gli equilibri che si creano… e che vanno presi in considerazione nell’attività di gestione del conflitto.
Come mediatrice, con una specializzazione universitaria in qualità di giurista d’impresa ed esperienza decennale in azienda, contribuisco a riequilibrare un ambiente diventato disfunzionale per la produttività e le persone stesse. E questo grazie a un approccio che è allo stesso tempo umanistico e negoziale (Scopri come lavoro).
Il mio obiettivo è accogliere e, se possibile, risolvere il conflitto eventualmente anche tramite verbale di conciliazione. Ma anche evitare che conflitti fisiologici diventino altro, se non adeguatamente gestiti (escalation del conflitto e violenza, non solo fisica ma anche psicologica).
Come?
Le attività su cui mi concentro sono quelle di.
- PREVENZIONE: formazione nella gestione del conflitto rivolta agli uffici deputati a gestire gli affari legali, rivolti ai manager, rivolti alla proprietà;
- RIPARAZIONE: mediazione conflitti in azienda come prevenzione al contenzioso e alle patologie connesse agli stress
- NEGOZIAZIONE: per la definizione (insieme ai legali, e talvolta poi anche in sede protetta) di accordi dirimenti.
Quali vantaggi?
- Per l’azienda: eliminare costo aziendale del conflitto non gestito. Ciò si traduce nel: ridurre il turnover e anche le assenze ripetute dei dipendenti; evitare la mancanza o la riduzione di produttività; tutelare e rafforzare la reputazione aziendale in ottica di corporate branding (riservatezza della procedura di mediazione); costruire team più affiatati; dare uno strumento di welfare in più ai dipendenti; evitare di esasperare una situazione arrivando alle vie legali e quindi risparmiare sui costi procedurali, ma anche sui tempi di risoluzione di una controversia,; usufruire della possibilità che la mediazione avvenga all’interno dell’azienda in una sala riservata ad hoc.
- Per il prestatore: lavorare bene e in team più coesi; sentirsi ascoltato, capito e riconosciuto; sentirsi accolto in situazioni in cui il conflitto sia degenerato, come nei casi di mobbing o violenza psicologica; evitare uno stato depressivo e di demotivazione continua che coinvolge ogni sfera, non solo lavorativa. Un conflitto disfunzionale, infatti, può creare un ambiente ostile sul posto di lavoro, pregno di emozioni negative come rabbia, paura, negatività, dolore e imbarazzo che, combinati con l’incomprensione e la sfiducia, abbassano il morale e causano un notevole di stress nei lavoratori, il quale a sua volta può condurre a numerosi problemi di salute fisica e mentale (Spector and BrukLee, 2013).
- Per la collettività: eliminare il costo sociale del conflitto mal gestito. In ambiente di lavoro ostile, le persone iniziano a perdere la loro energia e creatività. Si tirano indietro, smettono di condividere informazioni e prendono meno rischi. Il risultato può essere un processo decisionale di qualità inferiore.
Inoltre, il conflitto può degenerare in modo incontrollabile. L’Istituto nazionale per la sicurezza e la salute sul lavoro stima che oltre un milione di lavoratori vengano aggrediti ogni anno al lavoro: “un numero significativo di questi assalti proviene da clienti scontenti, pazienti, colleghi e impiegati. Il costo emotivo degli obiettivi della violenza e dei loro colleghi può essere enorme e può aumentare i costi associati alla ritenzione, all’assenteismo e all’assistenza sanitaria ” (Runde & Flanagan, 2008).
Studi e ricerche
Volendo andare più a fondo relativamente a studi e statistiche che potessero confermare tutto quanto sopra esposto, insieme a Lisa Gombini, mia compagna di studi sulla mediazione, abbiamo pensato di proporne qui di seguito alcuni utili da condividere.
Un primo studio che ha destato la nostra attenzione, del 2013, è quello di Katalien Bollen and Martin Euwema, pubblicato nel Negotiation Journal of Harvard College.
Come si è precedentemente esposto, tra le conseguenze del conflitto interpersonale tra i dipendenti vi è il turnover del personale e l’assenteismo, i quali notoriamente possono dare luogo ad aumento dei costi e perdita di produttività. A questi, secondo questo studio, vi sono da aggiungere i costi medici e sociali associati alla salute e alla qualità della vita individuali, così come allo stress di livello. Vero è che il più grave impatto sulla salute e il benessere del lavoratore richiede condizioni di conflitto prolungato e piuttosto intenso — primariamente giocato su un piano relazionale e/o personale; diversamente, la relazione negativa con la salute psico-fisica per lo più non si applica a conflitti più brevi e focalizzati, generalmente orientati al compito o al problema. Distinguiamo quindi il conflitto vero e proprio dalle controversie costruttive che, al contrario, sono salutari e stimolanti per l’organizzazione, fornendo l’occasione di conoscere diverse prospettive, costruire e negoziare nuove, originali, soluzioni (Giebels & Janssen, 2005).
Circa l’impatto del conflitto lavorativo sulla salute e il benessere individuale, i risultati di una meta-analisi condotta su 30 report di ricerca da De Dreu e Weingart (2003), indicano che il conflitto all’interno del gruppo di lavoro è negativamente relato all’efficacia della squadra e alla soddisfazione dei suoi membri. Oltre a problemi di insoddisfazione lavorativa e demotivazione, il conflitto può portare nel medio-lungo termine a sintomi psico-fisici e sindromi stress-correlate: i risultati di una meta-analisi condotta da Spector & Jex (1998), che include tremila impiegati statunitensi, mostra che il conflitto sul luogo di lavoro è moderatamente e positivamente correlato a disturbi psicosomatici e fisici (e.g. mal di testa, tensione muscolare, battito cardiaco accelerato, vertigini, stanchezza cronica ed esaurimento, insonnia, rigidità di pensiero, sintomi gastrointestinali, respiratori e cardiaci) (Watson & Pennebaker, 1989). Studi più recenti confermano la relazione tra conflitto sul lavoro e il detrimento del benessere fisico e psicologico esperito dai confliggenti, che spesso si manifesta e traduce in sindromi psicosomatiche e stress-correlate, sensazione di burnout, ansia e depressione (De Dreu et al., 2004; Dijkstra et al., 2005; Penney & Spector, 2005).
Stress, distress e burnout
Con il termine burnout ci si riferisce all’esito patologico — o sindromico — di una prolungata e cronica esposizione a fonti di stress lavorativo (Maslach et al., 2001). Ciò che determina tale condizione è la disparità tra energie spese e recuperate per far fronte agli stressor, manifestandosi in sintomi di esaurimento che coinvolge la sfera fisica, mentale e relazionale dell’individuo. Le tre componenti del burnout sono: esaurimento fisico e mentale associato al sentirsi sovraccarichi, esausti, incapaci di riposarsi e rilassarsi; cinismo e presa di distanza dal lavoro e dai colleghi, associato a un progressivo disinvestimento che può risultare in reazioni difensive alle richieste del lavoro (Van Dierendonck, Schaufeli, & Buunk, 2001); diminuzione del successo personale, reale e percepito, associato a demotivazione e senso di inutilità, inabilità e inefficacia (Maslach et al., 2001).
L’esaurimento emotivo è stato identificato come uno dei segni identificativi di burnout e distress prolungato (Quick et al., 1997): il lavoratore si sente esaurito, depauperato d’ogni energia, schiacciato dalle richieste quotidiane.
Il conflitto irrisolto costituisce un’importante fonte di “stress senza uscita”, spesso giocato entro dinamiche relazionali ed emotive circolari e progressivamente intense; la continua attivazione della risposta da stress ed emozioni negative e la concomitante inabilità a risolvere o gestire efficacemente la fonte di stress conducono in molti casi a condizioni di distess e burnout (Selye, 1976; Cherniss & Cherniss, 1980).
Fattori che influenzano la relazione tra conflitto e benessere
L’effetto del conflitto sul posto di lavoro su salute e benessere può dipendere da molti fattori, che ne determinano la probabilità d’evenienza e ne modulano l’intensità di impatto. Ad esempio, il conflitto potrebbe influenzare solo indirettamente il benessere del lavoratore mediante i suoi effetti diretti sullo stress organizzativo: un conflitto perdurante può deteriorare il clima di lavoro, facilitando l’esposizione ad ulteriori fonti di stress sul posto di lavoro e quindi ad uno stato di cronica iper-attivazione e dispendio di risorse ed energie (Gaillard, 1996).
Uno studio di Dijkstra e colleghi (2005) ha testato questa ipotesi, mostrando che il conflitto lavorativo e le concomitanti reazioni di fuga, disinvestimento e sentimenti di impotenza portino ad esperire maggiore stress organizzativo e quindi più frequenti sintomi di disagio fisico e psicologico. Anche i fattori di personalità potrebbero predisporre diversamente l’individuo (proteggerlo o esporlo maggiormente) agli effetti deleteri del conflitto su salute e benessere: l’idea è che alcune fonti di stress impattino alcuni lavoratori più di altri (e.g., Parkes, 1994; Warr, 1987). Prendendo a riferimento il modello Big Five di personalità, Dijkstra e colleghi (2005) hanno condotto due studi sul campo (in un’organizzazione sanitaria e una manifatturiera) i cui risultati mostrano che la relazione negativa tra conflitto e benessere è presente per soggetti con bassi punteggi di Gradevolezza (Agreebleness) e più forte nei soggetti con bassi punteggi di Estroversione. L’interpretazione degli autori è che un generale orientamento positivo verso il mondo e le interazioni sociali può agire da fattore protettivo, predisponendo a una risposta generalmente positiva e funzionale ai conflitti interpersonali. In modo analogo, anche la stabilità emotiva agisce da moderatore: individui meno stabili emotivamente subiscono in misura maggiore l’impatto del conflitto. Al di là dei fattori di personalità, risulta interessante, soprattutto ai fini di intervento, il ruolo degli strumenti e delle strategie messe in atto per gestire il conflitto. Basandosi sulla teoria del conflitto, Dijkstra e colleghi (2005) sostengono che gestioni proattive del conflitto riducono gli effetti negativi sul benessere individuale mentre forme passive, come strategie di evitamento e condiscendenza, li amplificano (Carver & Scheier 1994; Shapiro & Schwarz, 1996). Gli autori hanno condotto tre studi per testare questa ipotesi, coinvolgendo studenti con lavoro part-time, professionisti della salute e impiegati statali. Tutti hanno riprodotto gli stessi risultati: le forme passive di gestione del conflitto moderano la relazione tra conflitto sul posto di lavoro e la pressione, lo sforzo psicologico, amplificandone l’impatto negativo. Le forme attive di gestione indagate, cioè il problem solving e la forzatura, non hanno invece effetti sulla relazione.
Stress da conflitto e ridotto benessere al lavoro: l’effetto protettivo di una terza parte
L’intervento di una terza parte nel conflitto sul lavoro ha ricevuto crescente attenzione sia in ambito teorico (e.g., Elangovan, 1995; Kolb, 1986; Sheppard, 1984) sia di ricerca (e.g., Arnold & O’Connor, 1999; Karambayya & Brett, 1989; Pinkley et al., 1995). In generale, si distingue tra una terza parte che mantiene controllo di processo, come un mediatore, da una parte più autocratica, con controllo decisionale, come l’arbitro. La ricercar che si è occupata di comparare entrambe le tipologie ha mostrato che interventi effettuati controllando il processo invece che la decisione producono migliori esiti in termini di qualità, durata e soddisfazione delle parti. In parte, questo è spiegato da una percezione più equa del procedimento da parte dei partecipanti (Karambayya & Brett, 1989; Karambayya et al., 1992).
Uno studio condotto da Giebels e Janssen (2005) su 108 impiegati dei servizi sociali tedeschi ha indagato se stress e tensione intrapsichica direttamente associati al conflitto interpersonale sul lavoro siano responsabili di ridotto benessere in termini di esaurimento emotive, assenteismo e intenzioni di turnover. Inoltre, gli autori indagano se questi effetti deleteri possano essere limitati dall’aiuto e l’intervento di una terza parte nel conflitto. I risultati dell’analisi fattoriale mostrano che rivolgersi ad un terzo neutrale può essere considerato uno stile di gestione del conflitto addizionale, oltre al tipo attivo (problem solving e forzatura), passivo (evitamento e condiscendenza).
Come da attese, lo studio corrobora ulteriormente il legame tra conflitto ed effetti deleteri sul benessere individuale, con importanti ricadute anche sul comportamento del lavoratore. Ciò che costituisce un risultato nuovo e interessante è che questa relazione negativa tra conflitto e benessere è forte per i partecipanti che riportano di non ricevere o aver ricevuto particolare aiuto da una terza parte, mentre cessa di esistere per i partecipanti che dichiarano di ricevere grande aiuto da terze parti.
In conclusione, questo studio mostra che l’aiuto di una terza parte è una strategia di gestione del conflitto efficace nel prevenire alcuni dei più importanti esiti negativi connessi al conflitto sul luogo di lavoro.